martedì 26 ottobre 2010

il puzzle della propria esistenza.

L'articolo "Dal vuoto" di Giorgio Vasta è uscito su Repubblica ed è stato pubblicato lunedì 25 ottobre su minima et moralia, il blog di minimum fax; qui lo ri-posto.

Aggiungo solo che di anni io ne ho trentatrè ma, evidentemente, me ne sento addosso almeno quaranta. Commossa, condivido e sottolineo. Pensando al riscatto come a quel codice culturale non derivativo che siamo tutti presi a inventare.





"Parafrasando un successo degli Skiantos di una ventina d’anni fa potremmo dire: “Non c’è gusto in Italia ad avere quarant’anni”. Nel senso che se avere quarant’anni significa, mutata la percezione sociale delle età, penetrare finalmente nel tempo in cui ci si assume il compito di intervenire sulle cose, la sensazione prevalente è che poco o nulla di ciò stia accadendo e che i quarantenni siano percepiti, e si percepiscano, come abusivi che si aggirano clandestinamente per il paese.
La consapevolezza di questo stallo purgatoriale è condivisa da molti e di recente Christian Raimo ha ripreso il discorso su la Domenica delSole 24 ore. Nel suo 
pezzo Raimo si concentra lucidamente sul “vuoto” toccato in sorte a chi – “storici, critici, scrittori, giornalisti” – è nato in Italia intorno agli anni Settanta e si trova oggi a sperimentare “il disagio, la frustrazione, la mancanza di riconoscimento, l’impossibilità del conflitto, gli anni che passano, una generazione immobile.” In sintesi, e brutalmente, la consapevolezza della propria ininfluenza.
L’articolo di Raimo mi ha fatto tornare in mente un racconto di Raymond Carver che si intitola Vicini, quello nel quale i coniugi Miller accettano di badare alla casa degli Stone, una coppia di vicini di pianerottolo partiti per un viaggio. I Miller danno da mangiare al gatto degli Stone, bagnano le piante, controllano che sia tutto a posto. Senza rendersene conto, prendersi cura della casa dei vicini diventa per i Miller indispensabile, un modo per recuperare una vitalità perduta. Fino a quando, inavvertitamente, i Miller si chiudono fuori da casa Stone, ed è la fine. La vita degli altri non li nutre più. Restano soli sul pianerottolo, immersi in un vuoto insostenibile.
Eppure, per quanto doloroso possa essere, a questo vuoto – che nella misura in cui è nostalgia di un altro presente mi sembra somigliare a quello descritto da Raimo – non si può essere subalterni; subirlo, trascorrere gli anni a rimpiangere un pieno mancato, una densità (culturale, sociale, politica – umana) che si ritiene ci sia stata negata, vuol dire fare, in tutta buona fede, manutenzione di una posizione infeconda, utile al rimpianto e a perpetuare una prospettiva dipendente. Vuol dire restarsene addossati a quella porta, l’orecchio schiacciato contro il legno in cerca di un respiro, di un bisbiglio: pretendere di parassitare un codice concluso. La vita degli altri è, appunto, degli altri.
Per continuare a indagare questo vuoto serve però spostarsi dalla orizzontalità del racconto di Carver alla verticalità.
In uno spot di metà anni Ottanta, credo della Lacoste, un quindicenne si aggira per le stanze di una villa al mare in cerca di qualcosa da mettersi per il suo primo appuntamento. Il padre – un quarantacinquenne brizzolato e abbronzato – lo osserva con tenerezza; poi raggiunge la sua camera, tira fuori da un cassetto una polo bianca – quella da lui stesso indossata nella medesima circostanza – e la consegna al ragazzo che senza nessuna esitazione, anzi orgogliosissimo, se la infila e corre via.
In trenta secondi lo spot descrive una complicità tra le generazioni e ci consegna un’immagine esemplare di che cosa è accaduto (e, in filigrana, di che cosa non è accaduto) a chi a metà anni Ottanta aveva quindici anni e oggi ne ha una quarantina: il conflitto, nelle sue manifestazioni più sane e necessarie, sparisce, i figli indossano l’armatura (di cellule morte intessute al cotone) dei padri, ne perpetuano codici e cultura, sono autorizzati a sfruttarne le rendite di posizione. Sono cioè autorizzati a restare serenamente figli, un po’ Vladimiro ed Estragone in attesa di un Godot epocale che li riscatti (consapevoli del fatto che se Godot non arriva è meglio), un po’ coniugi Miller chiusi fuori dal pieno (abbracciati l’uno all’altro a lamentare il vuoto, a godere del vuoto).
A questo punto, anno 2010, le possibilità sono due: ci si può pretendere incurabili, inesorabilmente vittime (ma più di quanto si possa immaginare complici e dunque artefici) di un infinito ergastolo filiale – e allora si farà di tutto per sfondare la porta degli Stone e accamparsi in casa loro, perché quello è l’unico luogo concepibile, lo stomaco che desideriamo ci rumini e ci protegga, e nello stesso momento ci si rifiuterà di togliersi di dosso la maglietta apotropaica di papà implorandola di resistere agli anni a forza di rammendi, con la smania di chi adora una reliquia; oppure, al netto di ogni alibi, si decide di correre il rischio di usare tutto il tempo e tutta l’intelligenza ancora a disposizione per mutare postura psicologica e realizzare un’impresa che da sola, adesso, avrebbe un portato politico prodigioso.
Perché l’invenzione di un codice culturale non derivativo, un codice che riconnetta l’intelligenza delle cose alle azioni che di quell’intelligenza dovrebbero essere la continuazione, corrisponderebbe in questo momento, in questo paese, a una rottura paradigmatica: essere adulti senza chiedere il permesso, senza ereditare un patrimonio. Anzi rifiutandolo, il patrimonio. Perché se si riconosce che il contesto nel quale viviamo è radicalmente mutato e che buona parte dei modelli dati per buoni girano ormai a vuoto, si comprende che la polo di papà – vale a dire un’esperienza del mondo che nel tempo si è esaurita – è un’eredita sbagliata, un privilegio fittizio, e non va accettata, e che dunque, con Bauman, il puzzle della propria esperienza va ricomposto senza potere e senza dovere seguire un’immagine di riferimento, senza il conforto (e il vincolo) della foto sul coperchio della scatola; lavorare col puzzle, adesso, vuol dire lavorare senza bussola, “a orecchio”, in uno iato, manipolando tasselli in grandissima parte sconosciuti, ignorando la figura ultima alla quale si sta dando forma, ammettendo che questa figura preveda la persistenza di ulteriori piccoli vuoti e che questo, tutt’altro che un errore, è l’unico esito possibile. Lavorare con questo puzzle significa decidere il proprio patrimonio etico e politico.
In un tempo in cui le ascisse si mescolano alle ordinate, i conti non tornano mai e siamo tutti immersi in un vortice che scompagina presupposti e aspettative, per riguadagnare soggettività storica e capacità d’incidenza dovremmo forse riuscire a immaginare, come qualcosa di naturale e necessario, un tempo in cui siano i padri a ereditare dai figli."

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